Il compimento del giorno della Pentecoste coincide, per la prima comunità cristiana, con la fine del lockdown di 50 giorni -ben più terribile del nostro!-, durante il quale i discepoli avevano dovuto elaborare il lutto per la perdita di Gesù –la crisi più grave di tutta la storia della Chiesa!– e per la perdita di Giuda.

Il Cenacolo allora è il luogo di un grande dolore che, nella preghiera, viene piano piano “addomesticato”. La memoria di quello che il Cenacolo era stato quando Gesù era ancora in vita -il luogo della lavanda dei piedi e della fractio panis, illuminate dalle parole testamentarie del Maestro- si apre alla speranza impossibile, alimentata, del resto, delle settimanali apparizioni del Risorto.

Ed ecco, finalmente, il compiersi dell’impossibile: “furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue”. E il frutto, in chi ascolta, è la meraviglia: “come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?…Li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”.

Ecco la testimonianza, secondo la parola detta da Gesù nel Cenacolo (ancora il luogo decisivo e genetico della Chiesa…!): “lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito”. E poco prima: “egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio”.

Con la Pentecoste, comincia il tempo della grande testimonianza, alla quale la Chiesa è chiamata anche in questo cambiamento d’epoca. Si tratta, come dicevo alla Messa del Crisma, di lasciare il proprio terreno per mettersi sul terreno dell’altro, imparandone i linguaggi e le domande di senso, anche quelle silenziose o per noi difficili da capire. Siamo chiamati, oggi come allora, a “dire nel linguaggio di tutti ciò che il mondo non sa dire” (Collin): a praticare le parole di tutti per dire a tutti una Parola che viene da Altrove!