All’inizio di questa solenne e gioiosa celebrazione abbiamo pregato così: “concedi a noi, partecipi della consacrazione del Cristo, di essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza”. Testimoni nel mondo: questo vorremmo essere, per grazia. Testimoni della salvezza, perché noi per primi ci riconosciamo salvati. Salvati gratis, senza merito. Misericordiati, col linguaggio di papa Francesco.

Ma avvertiamo tutti, di fronte a questa prospettiva, come un senso di inadeguatezza. E allora ci chiediamo come vivere questa testimonianza, in questo tempo molto difficile e molto bello. Tempo di transizione (di Pasqua, quindi!) verso un nuovo che ancora non conosciamo e che un po’ ci fa paura: come sarà la Chiesa di domani? E chi vogliamo essere noi, in questa Chiesa? Gli amici sanno che spesso ripeto, quasi a slogan, “ce la faremo”. Ma non sempre ne sono convinto. Eppure so che “tutto sarà bene” (Giuliana di Norwick), perché Dio non abbandona la sua Chiesa e dà forza al nostro passo col balsamo profumato del suo Spirito.

Per questo è decisivo, proprio in questi giorni, volgere ancora una volta lo sguardo all’unico, vero Consacrato, che è il Cristo, “mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore”. E’ Lui l’Unto di Dio e gli oli che tra poco verranno benedetti parlano di Lui, che apriva cammini chiamando alla sequela (penso all’olio dei catecumeni), che guariva i malati (olio degli infermi), e che ha fatto, di dodici uomini fragili e peccatori come noi, apostoli e testimoni coraggiosi (il crisma).

Per diventare per grazia testimoni in questo tempo difficile dovremo imparare da Lui, “il testimone fedele”. Mi fermo solo su un aspetto, che credo decisivo, del suo stile: da Lui, questa sera, vorrei imparare la virtù della leggerezza, nel suo legame con l’itineranza. Anche perché “per ogni tipo di viaggio è meglio avere un bagaglio leggero” (Fabi). Anche per il viaggio che insieme, un passo dopo l’altro, stiamo facendo, come Chiesa di Dio che è in Savona.

A chi voleva seguirlo con entusiasmo forse sprovveduto, (“ti seguirò dovunque tu vada”), Gesù non nasconde che “il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. E poco prima, a tutti, aveva detto: “se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. E’ Lui l’uomo che cammina, del quale è stato detto: “se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più che un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine. L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte” (Bobin).

Ecco: vorrei imparare, vorrei che imparassimo, dalla leggerezza dell’uomo folle, che cammina confidando, senza sapere dove posare il capo. O meglio: che cammina, posando il capo sul cuore del Padre. Vorrei imparare questa leggerezza e questa confidenza.

Avverto invece che il cammino della nostra Chiesa e, in particolare, il ministero di noi preti rischiano di essere caricati di pesi che rallentano il passo e rendono corto il fiato. Ne indico quattro.

Il peso delle cose da fare e da gestire, innanzi tutto. Necessarie, certo, ma che rischiano di allontanarci dall’essenziale. Me ne sono accorto, in particolare, nei mesi (bellissimi!) della Visita pastorale. La nostra Chiesa possiede un patrimonio immobiliare talvolta significativo, ma difficile da gestire e da alienare. Spesso non produce alcun reddito, e anzi è un costo difficile da sostenere. E’ l’eredità di un passato che non c’è più. Occorre davvero che i Consigli parrocchiali per gli affari   economici (che sono obbligatori e desidero ci siano in ogni Parrocchia) aiutino i Parroci nella gestione, e che gli Uffici di Curia (come del resto stanno già facendo e bene!)  li sollevino da troppe incombenze, anche perché la legislazione è sempre più intricata e complessa. Condivido con voi una gioia: in occasione della Visita pastorale, le Parrocchie che lo potevano fare mi hanno dato qualche offerta significativa, per aiutare le Parrocchie più piccole o povere: è un bel segno di comunione ecclesiale, che penso possa indicare il cammino anche per il futuro. Senza dimenticare l’indicazione molto radicale (che dovremo capire come poter concretamente attuare) data dal Papa ai Vescovi italiani nel 2016: “mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”.

Il peso di una tradizione oggi difficilmente compresa dalle giovani generazioni. E’ la seconda breve osservazione che voglio condividere con voi. Un apparato dottrinale, morale, liturgico e pratico ricchissimo e articolato, del quale però non sempre a tutti è facile cogliere il cuore. Si tratta allora oggi, anche per la nostra Chiesa, di riscoprire il centro che è Lui, Gesù, l’Unto. Conoscere Lui e la potenza della sua Resurrezione (cfr. Fil 3,10). Amarlo, cercarlo, stare con Lui, nell’intimità di una relazione insostituibile. Ma questa radice cristologica della fede cristiana –riprendo qui un passaggio della mia prima lettera pastorale-  deve portare a semplificare l’annuncio, e la vita della Chiesa, come ci ricorda il Papa: “una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta d’imporre a forza d’insistere…L’annuncio si concentra sull’essenziale” (EG 35). E “in questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto”(EG 36).

Ma anche la solitudine può appesantire la vita di un prete. Il nostro celibato (lo evidenziavo già nella mia prima Messa crismale con voi, a Savona) è un dono grande, ma deve renderci artigiani di fraternità, capaci di tenerezza e cura; non possiamo isolarci dal presbiterio e da chi il Signore ci affida: diventeremmo un po’ cinici e disillusi. Camminare insieme, invece, ci dà gioia e rende più leggero il nostro passo.

Ma voglio anche su questo essere concreto. Spero che nel prossimo anno potremo inaugurare (per la generosità dei Canonici, che ringrazio di cuore!) in via Manzoni una piccola, ma fraterna, Casa per chi di noi è anziano. E penso anche che dovremo riuscire a immaginare (diversi di noi lo attendono con tutto il cuore!) la possibilità, per chi lo  desidera, di fare esperienza di vita comune, anche se temperata e rispettosa della privacy di ciascuno.

Ma qualche volta (è la quarta sottolineatura che voglio fare) rischiamo anche, forse senza volerlo, di diventare un peso per noi stessi. Può diventare peso anche la cura di sé, quando diventa eccessiva; può diventare peso la nostra abitazione, quando non è sobria ed essenziale; può diventare peso anche il pensiero del futuro. Vi confesso che sono sempre affascinato dalle parole di Gesù, anche se non sempre riesco a praticarle fino in fondo: “non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo di quello che indosserete” (Lc 12,22). Perchè il Padre nutre, il Padre veste, il Padre sa! Voglio imparare il coraggio di andare alla buona di Dio, confidando. Penso che questo stile di sobrietà e anche di povertà scelta, voluta, ci renderà leggeri, e ancor più credibili agli occhi di chi ci vuol bene.

Sarà questa povertà amata e voluta (madonna povertà, diceva San Francesco) a rendere spedito il cammino. Come siamo lenti, certe volte! E non è la lentezza sana, che è il segreto della gioia, ma la lentezza che è accidia; la lentezza di chi in fondo non crede che cambiare è possibile, e allora aspetta solo che cambi il vento, e tutto possa tornare come prima. O la lentezza di chi vuole essere sicuro, prima di rischiare. Ecco: vorrei imparare da Maria, che si mosse con rapidità, verso la montagna, per incontrare Elisabetta; o da Pietro, che confessa: “abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5,5).  Perchè la parola di Gesù è affidabile, e rende più veloce il cammino.

I tanti, troppi pesi della vita non ci devono rubare l’essenziale. Mi piace dirlo, per concludere, con le parole straordinarie di una giovane donna, Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943:

“L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini…Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento, invece di salvare te, mio Dio. E altre persone che…vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia”.

Solo se ci lasceremo, in questa Pasqua, abbracciare dalla misericordia di Dio, mettendoci senza paura nelle sue mani, saremo davvero Chiesa leggera, Chiesa in uscita. Lo chiediamo gli uni per gli altri, in questa Eucaristia. Amen.